Il padre è morto di Covid 3 settimane fa nella Rsa di Montevarchi. La figlia scrive oggi a Koinè
Rsa Montevarchi. Dietro la cronaca, oltre le polemiche, lontane dai veleni ci sono le storie delle donne e degli uomini che in questa strutture sono vissute e poi morte. Uccise da una malattia della quale non hanno fatto nemmeno in tempo a conoscere il nome.
Qui una figlia, Susanna Gargani, ha perduto il padre e nei giorni scorsi ha inviato una lettera alla Koinè. “Io e mio padre consideravamo casa questa Rsa. Lui non era una persona facile. Maresciallo Maggiore dei carabinieri, aveva un caratterino non semplice, non dormiva ed era nervoso. Ma tra il suo medico di base, le infermiere e le operatrici, dopo i primi mesi sono riusciti a calmarlo e renderlo sereno. Senza, come si dice tra noi, alloppiarlo. Era invece sveglio, presente e tranquillo“.
Un uomo dalla storia tutta all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Aurelio Gargani, nato nel 1931, vi era entrato al momento di prestare il servizio militare e ci sarebbe restato fino alla pensione nel 1985. “Mio padre aveva solo la quinta elementare ma una grande voglia di studiare e imparare. Il suo primo incarico fu a Nuoro. Ricordo che ci raccontava anni difficili in luoghi ancora più difficili: in caso di omicidio, lui piantonava il cadavere mentre il collega tornava in caserma a dare l’allarme“. Da Nuoro a Ravenna fino all’incontro con la donna della sua vita. “La mamma era di Firenze e per le regole dell’Arma lui non avrebbe potuto prestare servizio in quella città. Ed ecco la scelta di Bibbiena dove arrivò nel 1962“. Un uomo di carattere. “Era duro ma buono e ha fatto tanto bene. Era onesto: non gli ho mai visto accettare in regalo nemmeno una gallina. Ed era sempre disponibile. Anche di notte, se qualcuno bussava al vetro della finestra, lui si alzava e trovava il tempo per ascoltare e, se necessario, per muoversi”. L’Arma dei carabinieri è stato un suo grande amore: “non era solo un lavoro ma il senso che lui aveva dato alla sua vita“.
In pensione, poi l’invecchiamento, le malattie e infine le Rsa. Era arrivato a Montevarchi da un’altra struttura, “che per me – ricorda la figlia Susanna – era un vero e proprio lager“. Era il 2016. “Io e lui ci siamo ritrovati in un’altra realtà…buona, fatta di compassione, attenzione agli ospiti e, soprattutto, sana“.
Non era scontato. “Mio padre era in demenza senile, aveva un femore fratturato e dopo 40 giorni ancora non stava in piedi. Grazie ai fisioterapisti in tre mesi è riuscito a ricamminare addirittura senza stampelle, grazie alla competenza, umanità, la gentilezza con cui si approcciavano per far fare gli esercizi“. Risultato difficile da raggiungere a quell’età: “non tutti i pazienti sono collaborativi e mio padre era uno di quelli che, se s’impuntava, gli esercizi non li faceva proprio“.
La figlia ripensa a quegli anni e offre una riflessione sulle accuse che in queste settimane sono piovute sugli operatori: “per me sono stati fantastici. Io gli posso soltanto fare i complimenti per tutto; incominciando dalla segretaria Martina, che appena arrivati ti accoglieva con professionalità, e un sorriso gentile che ti faceva sentire ben accolta, sempre pronta a spiegarti qualsiasi dubbio una potesse avere…le suore, le infermiere, le cuoche, le oss, le ragazze della lavanderia e delle pulizie che tengono la struttura sempre pulita ed in ordine“.
L’ambiente che ricorda è ben lontano da quello cupo che oggi qualcuno racconta: “quando si entrava nell’Asp, venivi accolta da un profumo di pulito e da un profumo di mangiare… Le cuoche, l’abbondanza del cibo, il menù variato ad ogni stagione, e anche i menù particolari a seconda delle patologie, ma non solo quant’è buono io lo posso dire perché ci mangiavano io e mio marito; Natale, Pasqua Ferragosto compleanno di mio padre.. “. Un rapporto con i familiari che si è confermato anche nei momenti difficili: “nel 2016 ho avuto un ictus. Avevo 45 anni e mezzo ed ho rischiato molto. Koinè mi è stata vicina, in molti modi“.
La Rsa di Montevarchi era un luogo vivo. “Le animatrici che tenevano impegnate i nostri cari con mille lavoretti, sempre qualcosa di diverso, o la musica, o i bambini delle scuole che venivano a cantare per i nostri vecchietti… il coro fatto dai parenti di cui mio padre faceva parte, la festa del papà che portavano a far colazione al bar i nostri cari. Queste sembrano piccolezze, ma non lo sono. Ci vuole tanto amore e tanta dedizione e fatica per organizzare tutto questo“.
La figlia scrive di suo Padre con la P maiuscola: “io non l’ho mai abbandonato anche se venivo da Bibbiena. Un giorno si e uno no ero in struttura e a tutte le ore, e non ho mai trovato niente che non andasse bene. Certo non sono santi e qualcosa può essere andato storto ma con umiltà sono sempre stati pronti a risolvere i problemi e a trovare una soluzione. Per me è questo che fa la differenza“. Ricorda il lavoro della coordinatrice Koinè, Lucia Casini e delle sue “ragazze”: “si occupavano dei nostri cari con umanità, non sapete che cosa significa avere una carezza, una parola gentile, un rimprovero giustamente fatto, – mio padre per esempio non voleva fare il bagno e quando gli toccava il martedì, lui incominciava a picchiare chiunque gli si avvicinasse…“.
Nella “casa” è poi arrivato il coronavirus: “quando è morto mio Padre, erano 40 giorni che non lo vedevo e lo sentivo solo per telefono. L’ho rivisto il 15 aprile, in una bara chiusa al cimitero. È stato straziante ma non posso dare la colpa alla struttura. So che ha fatto tutto quanto era in suo potere per limitare i contagi. Per questo, dopo quasi 3 settimane dalla morte di mio Padre, mi rammarico di vedere l’accanimento contro la cooperativa. I nostri vecchietti hanno bisogno di cura e vi assicuro che lì ce l’avevano. È facile dare la colpa, trovare un capo espiatorio a chi è in prima linea, a chi fa un lavoro egregiamente. E lavarsene le mani quando incominciano i problemi“.
La figlia ricorda l’affetto che circondava il padre: “un bacio a quell’età… Non pensiamo che questa sorte non ci tocchi, invecchiamo tutti e al posto di mio padre un giorno ci sarò io e spero di avere la fortuna di trovare un ambiente come era l’Asp di Montevarchi“.